Tuesday, December 3, 2013

Che cosa vedi


La pioggia. L'autobus. Ombrelli umidicci che aderiscono staticamente al cappotto e ai pezzi di pelle scoperta. Le mani, cerca di metterle in salvo. Mettile in salvo. Nelle tasche, da qualche parte. Stafilococchi. Diluviava e ho preso un autobus a caso, il primo che passava di lì. Il gusto perverso di salire su un mezzo qualunque e sperare che ti porti nella direzione giusta. Non andava assolutamente alla stazione. Ci ho provato, ci ho sperato. Un po' la sensazione di quando ti affidi all'oroscopo dell’Internazionale il giovedì pomeriggio, che la gente comincia a condividere su Facebook il proprio segno zodiacale condito da commenti interessantissimi tipo: bene, siamo apposto! Oppure Rob avvolte mi sembra che tu sia dentro la mia testa!

 Rob. Mi dici per favore con una delle tue incomparabili metafore, prose poetiche, stimoli multidisciplinari, se domenica alle 18 prendendo un autobus a caso, il primo che passa di lì, arrivo alla stazione? Non t’ho capito Rob. Boh, vabbè. Comunque in qualche modo ci arrivo a Bologna centrale, stazione di Bologna Centrale. Mediamente umida, le punte dei piedi congelate. Si crea questo strano microclima all’interno dei calzini d’inverno, che muovi gli alluci e in misura minore le altre dita ma sai che ogni tentativo di riscaldare gli ambienti è fallimentare.

Intanto il maltempo ha creato un ritardo incalcolabile sulla linea. Per fortuna il treno che mi deve riportare a Firenze c’è. Salgo. Mi sistemo. La batteria dell’iPhone scarseggia ma sono su un interregionale, uguale zero possibilità di attaccarsi alla corrente uguale cazzeggio limitato. Decido di centellinare la mia mongolizzazione sullo schermo e mi guardo intorno.

Nella fila prima della mia, sul lato opposto, ci sono una mamma e le sue tre figlie. Mami è chiatta ma proprio chiatta, nel senso mediterraneo del termine: il culo e il busto compressi fra i due braccioli, la pappagorgia evidente ma bella compatta, che se avessi gli occhialini a raggi x ci troverei un tupperware con l’insalata di rinforzo, in quel gozzo. No time no space fra pancia e seno. Maglione in acrilico panna. Una enorme Zigulì che continua a torturare il biglietto tra le mani paffute. Sta bofonchiando contrariata fra sè e sè, la fronte corrugata. C’è tensione nell’aria. ‘Sto treno non parte. Una delle figlie si alza in continuazione, va a controllare se ci sono nuovi risvolti con ansia febbrile. Torna sempre indietro perdente. Mami si agita, le dicono di stare tranquilla ma lei nulla, non ci sente. E ancora si agita, e sempre la Solita va a vedere se il treno parte, e non parte, non si sa nulla, e Mami dice qualcosa in un dialetto che non capisco bene da dove provenga e così via, un circuito nevrotico che viene placato solo nel momento in cui Quella di Spalle, finora muta, dice - Mammàà, tira fuori i panini va!-
E mortadella fu.

Mami smolla finalmente il biglietto del treno ormai consumato sul tavolino di fronte a lei e si divora la sua pagnotta con aria non certo felice ma sicuramente motivata. Sembrerebbe essersi calmata (chissà poi perchè starà smaniando in quel modo) quando la Solita si alza di scatto, va in fondo al vagone e un attimo dopo la vedo comparire fuori, all’altezza dei finestrini della sua comitiva. In quello stesso momento si sente il fischio del treno, Mami che sta bevendo si strozza, mollica e acqua giù nella faringe, tossisce e cerca di disincagliarsi dal sedile mentre urla, ANNAREEE, ANNAREEEE*. Pochi secondi dopo le porte si chiudono, Mami raggiunge il corridoio e lo attraversa sbandando, tossendo, urlando e sputacchiando bolo sul mento e sui baffi, sembra il distaccamento forzato della madre dai suoi cuccioli di foca, produce ormai rumori sinistri e gutturali. Per fortuna Annarè come nei migliori film di azione ce l’ha fatta a sopravvivere a questa strabiliante avventura e la vediamo sbucare in fondo al corridoio. Annarè è salva, ma Mami adesso s’è incacchiata parecchio. Le rifila una sberla, aggratis, di fronte a un pubblico sbalordito (io e due magrebini). Al che Quella di Spalle e la terza - che chiameremo la Risoluta - intervengono cercando di calmare il pachiderma. La mettono a sedere, che ancora secerne pane e mollica. Annarè però non ci sta e sbrocca. Comincia pure lei a urlare, - Ma io che ne so dov'é Salerno, che ne sooooooo!!!!- Piange. Ha il trucco colato. Si mette le cuffie, chissá cosa sta ascoltando nella sua adolescenza. Magari i Linkin Park. O gli Evanescence. Ha riccioli biondi e lo sguardo da darchettona ferita. Una di quelle immagini gothic che ti vengono fuori digitando su Google la parola "sadness". Rimmel che cola da occhi di ghiaccio, fate nel bosco in posizione fetale, ninfette disegnate di schiena che guardano il riflesso della propria immagine in un lago disturbato dalle lacrime che rotolano copiose, sagome di alberi spezzati in lontananza, foto in bianco e nero con un particolare a colori, che può essere, in ordine: 1- labbra rosse, 2- rosa rossa, 3- qualcosa di rosso.
Ogni tanto ci incrociamo gli sguardi, secondo me ha capito che la sto osservando. Adesso canta muovendo le labbra sottili, sembra Cristiano Godano, fresche idee di ineluttabile morte. È calato il silenzio. Dopo un po’ Quella di Spalle fa cenno a Annarè di togliersi le cuffie. - Non la devi far preoccupare a mamma -.
Ora ridono. Il peggio é passato. Sembra una sorta di giardino delle vergini suicide, versione frittata coi maccheroni. Quelle risatine fungono da conforto, tutte lo sanno che la situazione è tragica. Lo sa anche la Risoluta, che ride senza scoprire troppo i denti, tutti storti e sgraziati. L’importante ora è che la mamma stia nel recinto, lì dove si sente sicura, dove la sua morbosa in-coerenza è messa a tacere. Ci ho visto di tutto, in quei minuti prima e dopo lo schiaffone. Farfugliamenti furiosi. Nonsense quotidiani. I semafori e le strisce pedonali, la paura di attraversare che immobilizza come un coniglio coi fari puntati addosso. Arrivare dal dottore un'ora prima. Casa loro, un cubo dai soffitti bassi. Due ragazze in una camera, un’altra che la sera apre il divano letto in salotto*, tutte a ritagliarsi angoli di pace disperata fra rumori molesti, odore di cibi nauseabondi, tv sparata a palla, finestra chiuse e aria stantìa. Truciolati rivestiti di laminato, pochissimi libri se non la Grande Enciclopedia del Sapere Garzanti comprata a rate da un rappresentante porta a porta i primi anni ‘90 e pochi altri volumi del Touring Club dall'aria immacolata se non fosse per la polvere che li ricopre, posti dove nessuno è mai stato dai nomi esotici tipo “Le Isole Eolie”. Sulle pareti quadri brutti di nature morte di pessimo gusto. Un'incredibile stampa su tela molto scura, un delfino glitterato fuoriesce dalle brume di un oceano dai toni bluastri e melanzana. Cornici cinesi. Mobilia modulare. Ho lo stesso magone di quando guardo Report. A Vaiano i due magrebini scendono, salutando con un timido cenno della testa la combriccola. Il disagio si taglia col coltello. E il grissino affonda nelle carni. Quelle piene di steroidi sottocosto del discount in fondo all’angolo.


*1 vero nome de la solita
*2 probabilmente la risoluta e quella di spalle insieme, Annarè sul divano letto

No comments:

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...